“La gente passa troppo tempo a degustare vino e troppo poco a berlo”
André Tchelistcheff
Dall’alto, il Piemonte sembra una soffice trapunta a quadrettoni drappeggiata elegantemente sull’arco alpino, i cui rilievi coperti formano morbidi declivi striati. Avviciniamo gradualmente lo sguardo e ci accorgiamo che ognuno dei quadrettoni è una vigna e le striature sono filari. Ogni filare è composto da viti, foglie, tralci e grappoli, a loro volta formati da acini, perle di un tesoro che un giorno diventeranno vini piemontesi.
Il Piemonte è lo scrigno che racchiude queste perle.
Considerato a buon diritto una delle regioni enologiche più ricche d’Italia, è senz’altro la più importante in termini di numeri, dato che tra vini rossi e vini bianchi vanta 42 vini DOC e 16 DOCG, un acuto italiano in campo enologico. Basti pensare alla recente costituzione della “Strada Reale dei vini torinesi”, un percorso nei luoghi del territorio del capoluogo lungo 600 chilometri che percorre buona parte del Canavese, della Collina Torinese, del Pinerolese e della Val di Susa. In Piemonte è nato anche lo spumante, il più famoso dei quali (e non solo in Italia) è certamente quello d’Asti.
Le origini
L’origine dei vigneti piemontesi risale ai tempi dei greci che, attraverso i porti dell’attuale Liguria, penetrarono nel territorio importando barbatelle e talee che sarebbero poi diventati i primi vitigni della regione. Già in epoca romana quindi, le coltivazioni erano ben avviate e così fu fino al crollo del Sacro Impero, quando le invasioni barbariche devastarono il territorio. Ciò nonostante, l’espansione del terreno produttivo proseguì con la progressiva introduzione di nuovi vitigni e metodi di vinificazione.
Dal punto di vista di quello che oggi chiamiamo marketing, la svolta più importante avvenne grazie a Camillo Benso, conte di Cavour, politico ma anche grande produttore ed estimatore di vini. Fu proprio grazie a lui che il Barolo ottenne la sua meritata fama (di vino pregiato) quando venne usato come vero e proprio strumento diplomatico. L’interesse di Cavour per questo vino lo spinse a piantare 200.000 viti di Nebbiolo nel Castello di Grinzane: qui, collaborando con il celebre enologo francese Alexandre-Pierre Odart, implementò nuove tecniche di coltivazione e vinificazione.
Successivamente, alla fine dell’800, alcune calamità colpirono la regione, distruggendone il patrimonio vitivinicolo e dando inizio a una profonda crisi che durò decine di anni.
Fortunatamente, il tempo e la dedizione dei viticoltori piemontesi hanno permesso alla regione di riprendersi e diventare un punto di riferimento a livello mondiale: i vini del Piemonte sono celebri tanto in patria quanto all’estero dove, specialmente i rossi, sono considerati una delle massime espressioni delle capacità enologiche nazionali.
È in questa regione generosa che nascono alcuni dei vini più importanti d’Italia: la copertura su tre lati fornita dalle Alpi regala al Piemonte un clima perfetto per la coltivazione della vite, rendendolo una terra da vino per eccellenza. Le aree di produzione dei vini piemontesi sono principalmente quattro: l’Astigiano, il Monferrato, le Langhe e la ventina di zone produttive raccolte sotto le Denominazioni del Nord. In pratica, il Piemonte è un vigneto di 45.000 ettari, prevalentemente collinare, la cui resa per ettaro è volutamente bassa per esaltare la qualità del prodotto finale.
Nonostante quasi tutti i vini bianchi piemontesi siano delle eccellenze nel proprio campo (oltre al già citato spumante non bisogna dimenticare Arneis, Chiaretto, Erbaluce e Gavi), il Piemonte è celebre per la sua produzione di vini rossi, i più famosi dei quali sono senz’altro Barbaresco, Barbera, Barolo, Nebbiolo e Roero. Menzione a parte meritano due vini probabilmente minori in termini di celebrità, ma non certo meno importanti: il Dolcetto, prodotto con le sole uve del vitigno omonimo, un vino rosso pregiato dal caratteristico aroma vinoso e dal sapore gradevolmente amarognolo E il Freisa, anch’esso ottenuto con il 100% di uve del relativo vitigno, un vino rosso rubino dal sapore amabile fresco.
Barolo: vino da re, re dei vini
In un sottobosco i cui morbidi aromi giocano a nascondino dietro l’austera robustezza del legno che dona tostati sentori di vaniglia e tabacco, irrompe caldo il sapore della frutta matura che riempie la bocca e sazia l’anima. Difficile trovare tra i vini rossi piemontesi uno più adatto del Barolo da accostare all’aggettivo “prestigioso”. Un rosso, il rosso, che più rosso non si può, è DOC dal 1966 e DOCG dal 1980. Prodotto esclusivamente con le uve Nebbiolo di 11 comuni (sottozone all’interno delle quali vi sono dei Cru molto importanti) delle Langhe, per potersi fregiare di tal nome il Barolo segue regole rigidissime: deve invecchiare almeno 38 mesi, a decorrere dall’1 novembre dell’anno di produzione delle uve, di cui 18 in botti di legno; il termine “Riserva” compare in etichetta dopo cinque anni di affinamento.
Nonostante la sua potenza, il Barolo riesce a bilanciare la sua alcolicità e l’acidità dei tannini, diventando l’abbinamento perfetto per piatti robusti come cacciagione, selvaggina da pelo, arrosti e stufati, ma anche per importanti formaggi stagionati come il Castelmagno e piatti a base di tartufo. Nella versione “chinata”, il Barolo è uno dei pochissimi vini che si abbina degnamente al cioccolato amaro.
Perdersi nella foschia del Nebbiolo
Nobile, prezioso, esigente, resistente ma delicato, complesso ma diretto, sensibile ma potente, il Nebbiolo è il vitigno autoctono a bacca nera più antico del Piemonte, pilastro su cui si fondano alcuni dei vini rossi pregiati più celebrati della regione. Sull’origine del nome esistono due correnti di pensiero. Secondo alcuni, la pruina, la patina cerosa che si forma e ricopre gli acini, dà l’impressione che il grappolo sia avvolto da una soffice nebbia. Stando ad altri invece, è perché la maturazione tardiva dell’uva spinge la vendemmia al sorgere delle prime nebbie autunnali. Ed è proprio questa l’atmosfera in cui i viticoltori raccolgono i frutti del duro lavoro che il Nebbiolo richiede, dato che matura nella prima metà di ottobre, più tardi rispetto alla media dei suoi colleghi.
È curioso scoprire come, fino alla metà dell’800, il Nebbiolo veniva vinificato dolce e in rosato. Per quanto possa far sgranare gli occhi, ciò risulta comprensibile se si pensa che, ai tempi, vini rossi come il Nebbiolo erano considerati troppo aspri, vini poveri destinati inevitabilmente al popolo. La nobiltà beveva vini bianchi o rosati, dolci e preferibilmente mossi.
La schietta onestà della Barbera
Generosa Barbera
Bevendola ci pare
di essere soli in mare,
sfidando la bufera.
(Giosuè Carducci)
Inutile negare le origini povere della Barbera: era il “vino del contadino”, quello senza pretese che la gente comune beveva tutti i giorni. Forte di questa tradizione, nel corso del tempo è riuscito a diventare uno dei vini più diffusi in assoluto, tanto dal punto di vista produttivo quanto da quello del consumo.
La Barbera tra i vini piemontesi è quello più trasversale, duttile, che grazie alle sue numerose declinazioni riesce a essere presente nella nostra vita enologica in diverse vesti: da quella più sbarazzina e leggera dell’aperitivo a quella più elegante del vino da pasto. E non delude mai grazie alla sua bevibilità totale, rispecchiando così l’estrema capacità adattiva di questo vitigno che rappresenta almeno la metà dell’intera produzione della regione.
Tre sono le regioni principali in cui la Barbera viene prodotta, che conferiscono ognuna caratteristiche peculiari estremamente diverse: il Monferrato, sua terra natale, dove è fresca, acida, beverina; l’Astigiano, la cui Barbera è forte, speziata, elegante; e ad Alba, dove predominano il corpo e la struttura, venati da una piacevole acidità. Menzione d’onore per la Barbera detta “vivace”, giovane e con una leggera effervescenza.
Arneis, una storia di gloriosa sopravvivenza
Spartiacque naturale anche in campo enologico, il fiume Tanaro ospita sulla sponda destra i territori che producono il Nebbiolo, e su quella sinistra la zona di produzione dell’Arneis, vitigno a bacca bianca originario della regione del Roero dove è coltivato fin dal 1400. Forse è proprio per questo che, nei primi accenni storici che lo menzionano, viene chiamato Nebbiolo Bianco.
Con il cugino rosso condivide prestigio, maturazione tardiva e l’impegno richiesto nella coltivazione. Di colore paglierino e dall’odore delicato e fresco, con eventuale sentore di legno, l’Arneis ha un sapore armonioso ed elegante. È un vitigno ribelle, difficile da domare, al punto che ha rischiato l’estinzione a inizio ‘900; è stato solo per merito dei vignaioli del Roero che hanno creduto nel valore di questo vino che, negli anni ’70, è tornato alla ribalta. Questa sua difficoltà di gestione, insieme forse all’aspetto deforme che avevano le sue viti fino a poche decine di anni fa, sono probabilmente all’origine del suo nome: la parola “arneis” in dialetto piemontese significa infatti scapestrato, scavezzacollo.
La natura estroversa e originale di questo vitigno si riflette sul Roero Arneis in cui si trasforma: prodotto in soli 19 comuni della provincia di Cuneo, è un vino bianco secco DOCG dal tenore alcolico importante che però non ne inficia le bevibilità; non aromatico ma profumato, con un retrogusto di mandorla amara che ben si sposa a piatti di pesce non eccessivamente sapidi.
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