Negli ultimi anni sarà capitato a tutti di sentire questi termini, spesso in modo appropriato, altrettanto spesso usati a puro scopo di marketing e più raramente a sproposito. Si tratta di un argomento complesso che oggi vogliamo provare a semplificare.

Il concetto di vino biologico va di pari passo con l’aumento della sensibilità ambientale dei produttori che hanno iniziato a utilizzare tecniche di coltivazione e di produzione del vino che rispetta i cicli di vita naturali. Innanzitutto una precisazione: i vini si possono definire biologici dal 2012 grazie a un cambiamento nel regolamento comunitario, perché precedentemente esistevano solo vini da uve biologiche.

Vino biologico: vigna e cantina

Cosa succede nella vigna: è da qui che parte la grande attenzione al vino biologico. Non sono ammessi prodotti chimici di sintesi né OGM, quindi è bandito anche il diserbo. Sono ammessi circa la metà dei prodotti normalmente utilizzati nella viticoltura tradizionale, anche se ci sono viticoltori che ne usano ancora meno. Addirittura, una piccola percentuale ha iniziato a impiegare solo poco rame e poco zolfo per il trattamento della vigna.

Cosa succede in cantina: ci sono pratiche non ammesse, come la concentrazione parziale a freddo o l’eliminazione dell’anidride solforosa con procedimenti fisici, o anche un certo tipo di alcolizzazione del vino.

L’anidride solforosa, questa sconosciuta

L’anidride solforosa merita un approfondimento. Innanzitutto va sottolineata la sua azione antisettica: se le uve non sono perfettamente sane e contengono batteri che possono attivare cariche microbiotiche indesiderate, l’anidride solforosa le disinfetta. Inoltre, ha anche un potere anti ossidante, molto importante per i vini bianchi, e un’azione stabilizzante che, semplificando il concetto al massimo, fa in modo che il vino resti vino e non diventi aceto.

Ma allora perché viene demonizzata? È semplice: perché in grandi quantità è tossica, e dato che è presente anche in molti altri cibi che ingeriamo, meno ne assumiamo e meglio è.

Volendo dare qualche numero: per i vini biologici rossi è ammessa la presenza di anidride solforosa in una quantità di 100 mg per litro invece dei 150 ammessi per i vini tradizionali convenzionali. Per i vini bianchi biologici sono invece consentiti 150 mg al massimo contro i 200 dei vini convenzionali.

I difficili inizi del vino biodinamico

La biodinamica in campo enologico è ormai una realtà consolidata, adottata da un numero sempre maggiore di aziende vinicole. Inizialmente, questo tipo di produzione ha incontrato alcuni ostacoli, come sempre succede a chi sperimenta per primo.

In questo caso, i viticoltori più audaci, ma anche un po’ sprovveduti, hanno cominciato a produrre vini biodinamici senza un’adeguata preparazione. Di conseguenza, i risultati iniziali non sono stati ottimali e cominciò quindi a circolare l’idea che i vini biodinamici avessero un cattivo odore e che non fossero buoni. In realtà, il vino ha ben poca colpa: la responsabilità era dei vignaioli poco esperti. Con la diffusione dell’informazione e il raffinarsi delle tecniche di vinificazione, il vino così prodotto ha finalmente ottenuto il giusto riconoscimento.

Le origini della coltura biodinamica

L’origine della coltura biodinamica risale agli anni ’20 quando il filosofo, antropologo, sociologo, pedagogo e appassionato di agricoltura Rudolph Steiner (sì, quello delle scuole steineriane) teorizzò che a lungo andare l’uomo avrebbe consumato e distrutto il pianeta. Quasi una profezia. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, i prodotti chimici di scarto prodotti dal conflitto minacciavano l’agricoltura e si chiese quindi aiuto a Steiner, il cui approccio olistico per molti è basato sulla superstizione.

Un approccio olistico, dicevamo, che considera l’azienda vinicola un tutt’uno con la terra e il cielo. Un unico organismo vivente in cui le singole parti non possono essere separate, ma vanno considerate solo nel loro insieme. La biodinamica steineriana mira ad essere l’essenza di un nuovo modo di fare agricoltura in generale (viticoltura nel nostro caso) innescando e guidando i processi vitali scaturiti dal pensiero e dall’azione umana dell’agricoltore.

I preparati biodinamici

L’azienda vinicola biodinamica dev’essere innanzitutto biologica (vedi sopra), in vigna come in cantina, dove la chimica è bandita: no a filtrazioni, stabilizzazioni o chiarificazioni, mentre i lieviti devono essere indigeni e non selezionati. L’azienda diventa biodinamica quando iniziano a entrare in gioco i preparati con i quali viene trattato il terreno. Si tratta di compost rinforzati con piante medicinali il cui scopo è ridare vita alla terra, e la cui preparazione è alquanto singolare, esoterica direbbero alcuni. Prendiamone due comunemente usati in viticoltura.

Cornoletame

Il preparato 500, il famoso Cornoletame, è un corno di mucca riempito di letame di vacca, piante officinali e altri prodotti naturali, che viene interrato alla fine di settembre e dissotterrato dopo Pasqua. All’interno del corno si troverà un humus scuro, inodore e umido; un lievito prodotto dalla terra che ne attiverà i processi vitali. Il preparato 500 viene quindi dinamizzato, cioè sciolto in acqua e poi agitato, e infine spruzzato sul terreno. Secondo Steiner, il corno della vacca serviva a catalizzare le energie vitali, chiamando in causa anche i cicli lunari.

Cornosilice

L’altro preparato è il 501, il Cornosilice: la polvere di silicio viene miscelata con acqua di fonte fino a farla creare una pappetta che viene poi inserita in un corno di mucca. Il corno viene poi interrato da Pasqua a novembre e, una volta dissotterrato, conterrà una polvere bianca e finissima che viene dinamizzata e spruzzata sulla vigna. Il Cornosilice processa e rafforza gli aspetti qualitativi del prodotto come colori, sapori, profumi e aromi.

L’utilizzo di questi preparati naturali non altera le caratteristiche del terreno come farebbero dei prodotti chimici, il cui utilizzo renderebbe il terreno sempre più “assetato”, richiedendo più acqua di quanto farebbe normalmente. Inoltre, le radici, trovando già i nutrimenti in superficie, non hanno bisogno di scendere in profondità; in caso di siccità, non sarebbero quindi in grado di trovare l’acqua diversi metri sotto terra.Infine, con tutto questo surplus d’acqua, le foglie diventano più pesanti, si piegano e non ricevono correttamente la luce del sole, nuocendo così alla fotosintesi.

Una scelta filosofica

Se quella della coltivazione biodinamica sembra una scelta quasi esoterica, quella di produrre vino biologico è senz’altro filosofica. Si tratta di un modo diverso di approcciare il vino e, per estensione, la vita, nel rispetto del territorio e della natura. Un vino naturale non è fatto semplicemente pigiando l’uva e accettando passivamente il prodotto finale. Bisogna comprendere l’uva a tal punto da poterla accompagnare nel suo percorso, rispettandone sia l’annata che il territorio.

Il vino è stato sempre “naturale” fino a 60 anni fa circa, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Come nel caso della coltura biodinamica, fino a una decina di anni fa erano vini imperfetti, che hanno conferito una cattiva nomea a questo tipo di prodotto. In seguito, i vignaioli hanno raffinato le proprie tecniche e di conseguenza è migliorato anche il vino.

I misteri del vino naturale

Per produrre il vino naturale si deve partire da uve biologiche che diventano vino mediante fermentazione spontanea del mosto, senza aggiunta di altre sostanze, fatta eventualmente eccezione per piccole quantità di anidride solforosa. Al momento non esiste alcuna legislazione o un unanime consenso sulla esatta definizione di “vino naturale“. Questo nome non è quindi certificato da nessun organismo accreditato, ma esiste comunque un vasto movimento per la creazione di un regolamento europeo di produzione.

Chi fino a ieri ha bevuto vino tradizionale, dai sapori ormai standardizzati, se di punto in bianco inizia a bere vino naturale dirà che non è buono. Purtroppo sono vini difficili da capire e c’è spesso bisogno di intraprendere un percorso per comprenderli al meglio.