La storia recente dei vini siciliani famosi non è dissimile da quella di altre regioni: prodotti a lungo ritenuti di seconda categoria, utilizzati come vini da taglio, sono stati più volte sul baratro dell’estinzione per cause per lo più naturali, come vedremo più avanti. Ma grazie all’impegno dei viticoltori e al desiderio di rispondere alle domande di un mercato in evoluzione, questi brutti anatroccoli si sono trasformati in splendidi cigni che oggi sono il vanto del panorama vinicolo siciliano.
Tecnicamente ciò è avvenuto grazie all’innovazione dei metodi di coltivazione, all’introduzione della viticoltura biologica che si è affiancata a quella tradizionale e da una vinificazione non invasiva, rispettosa dell’ecosistema e in equilibrio con l’ambiente circostante. Il simbolo di questa filosofia è l’alberello, una forma di coltivazione della vite diffusa dove le condizioni ambientali limitano lo sviluppo della pianta. Se nel nord Europa questo significa temperature basse, in Sicilia questi fattori sono il clima caldo e la scarsità di acqua dolce.
Un altro simbolo della Sicilia del vino è senz’altro l’Etna. Sul vulcano attivo più alto d’Europa si attua quella che viene definita viticoltura eroica, una coltivazione difficoltosa dovuta, in questo caso, a forti pendenze e altitudini superiori ai 500 metri sul livello del mare. Qui si producono i cosiddetti “vini dell’Etna“, la cui prima DOC risale al 1968. La disciplinare prevede che tutte le operazioni di vinificazione, spumantizzazione, invecchiamento, imbottigliamento e affinamento vengano effettuate all’interno della zona di produzione, cioè di 20 comuni tutti in provincia di Catania.
L’arrivo della vite nella zona risale all’VIII secolo a.C. grazie alla colonizzazione dei greci, il che rende questa terra la più antica della civiltà agricola siciliana.Non c’è quindi da stupirsi se, alla fine del 1800, la provincia di Catania era la più vitata di tutta l’isola, con oltre 90.000 ettari di vigneti. Purtroppo, come accadde per lo Zibibbo a Pantelleria, l’arrivo della filossera agli inizi del ‘900 innescò una grossa crisi, dimezzando la superficie produttiva. Bisogna considerare inoltre che l’Etna è un vulcano attivo e le sue frequenti eruzioni hanno contribuito ulteriormente alla riduzione dei vigneti. Altra analogia con Pantelleria, le coltivazioni sono quasi esclusivamente terrazzate a causa delle forti pendenze che impediscono anche la meccanizzazione della coltivazione, rendendo difficile la coltura e determinando una levitazione dei prezzi.
Come per altri prodotti di cui parleremo più avanti, anche nel caso dei Vini dell’Etna è stato solo grazie alla passione dei viticoltori che i prodotti hanno mantenuto una grande importanza nel panorama enologico siciliano e oggi riescono a essere vini di primo piano riconosciuti in tutto il mondo.
Sul vulcano, “a Muntagna” come la chiamano i siciliani, tutto è particolare: il paesaggio spettrale, quasi lunare, è dipinto dal nero della terra vulcanica sulla quale si appoggiano vigne coltivate ad alberello. Le escursioni termiche degne di nota e un’esposizione totale al sole trasformano i vini dell’Etna in prodotti dall’identità unica, che hanno spinto i viticoltori locali e imprenditori stranieri a preservarne la coltura.
La svolta del Nero d’Avola
Tra i vini rossi siciliani, il Nero d’Avola è quello più diffuso e coltivato sull’isola. Sin dal 1500, nelle cronache si fa menzione di questo vitigno a bacca nera coltivato a sud di Catania, ma originario di Avola, nella zona che oggi è la soleggiata provincia di Siracusa, tra le località di Noto e Pachino. Nel periodo medievale, la costa sudorientale siciliana era zona di grandi commerci, un crocevia di popoli, e il Nero d’Avola, già largamente diffuso, veniva spesso venduto e comprato per dare corpo e colore ai vini dal tenore insufficiente.
Il Nero d’Avola mantenne il suo ruolo di vino da taglio fino al ventesimo secolo proprio in virtù della sua gradazione alcolica, che può raggiungere anche i 15°. Verso la metà degli anni ’60, alcune aziende siciliane decisero di valorizzare questo vitigno: volevano un vino da tavola che rispondesse alle esigenze di un mercato in evoluzione e ritenevano che il Nero d’Avola avesse le potenzialità per diventare un giocatore di primo piano nel panorama enologico italiano. Grazie all’abbassamento del grado alcolico in favore di un aumento dell’acidità, all’innovazione delle tecniche di vinificazione e alla sconfinata passione dei suoi coltivatori, il Nero d’Avola fa quindi il suo trionfale ingresso nel ventunesimo secolo, diventando protagonista grazie alla sua riscoperta avvenuta nel corso degli ultimi 10 anni.
È un vitigno dalla bassa resa per vite, forte, sano, in grado di resistere a terreni non irrigati e che produce un grappolo non molto grande, con acino di dimensioni medio-piccole e frutti dal colore rosso con sfumature violette. Il risultato è un vino di carattere, tannico, dal corpo robusto e dall’acidità media che lo rende adatto all’invecchiamento.
Indipendentemente dalla zona di provenienza, le caratteristiche comuni al Nero d’Avola sono i frutti rossi al naso e i tannini dolci al palato. Se lasciato a invecchiare in botti di quercia, regala un vino importante dalle caratteristiche articolate: di colore rosso rubino, ha sentori di prugna e ciliegia, con note balsamiche e speziate. Se consumato giovane, risulta fresco, dal sentore di prugna e frutti rossi e che può anche arrivare a ricordare il cioccolato e la mora nelle sue varietà più complesse.
Oggi il Nero d’Avola è uno dei migliori vini siciliani, coltivato in tutta l’isola, anche ad altitudini elevate, dove la temperatura più fresca produce un vino morbido e di gradazione inferiore rispetto alla media.
Una curiosità sul nome: il vitigno del Nero d’Avola è anche detto Calabrese. Sulle prime è un nome che stupisce per una sorta di dissonanza geografica, ma in realtà il mistero si cela dietro una peculiare declinazione linguistica del dialetto. Come abbiamo detto, l’origine quest’uva è Avola; delle uve provenienti da questo posto si diceva che scendevano da Avola, o meglio (attenzione allo scatto dialettale) calavano da Avola. Che in dialetto si dice calau avulisi, che diventa calaurisi, quindi calavrisi, poi calabrisi e infine, italianizzato, calabrese.
Grillo, un vino ricco di particolarità
Del Grillo si conosce la data di nascita: 1873 a Favara, in provincia di Agrigento. Un nobile ampelografo, il barone Antonio Mendola, in cerca di un prodotto ibrido aromatico per la produzione del Marsala, incrociò con successo il Catarratto e lo Zibibbo. Proprio la zona tra Marsala e Trapani divenne l’habitat naturale del Grillo, la cui storia ricalca per certi versi quella del Nero d’Avola: nonostante occupasse il 60% della superficie vitata del marsalese, divenne un vino sottostimato, sottovaluto, utilizzato per anni come prodotto da taglio. Il motivo è da ricercarsi proprio nelle alterne fortune del Marsala alle quali il Grillo ha saputo sfuggire, diventando oggi uno dei vini bianchi siciliani più stimati.
Vitigno a bacca bianca, si è diffuso anche al di fuori dei territori di provenienza e oggi si calcola che la superficie siciliana vitata a Grillo abbia ormai raggiunto i 6.500 ettari, con una produzione di 13 milioni di bottiglie.Il perché è da ricercarsi nella grande produttività di questo vitigno, facile da coltivare e con le caratteristiche giuste per sviluppare mineralità e invecchiare bene, anche per anni, caratteristica insolita per i vini bianchi. Altra particolarità è il grado zuccherino, più elevato rispetto agli altri bianchi, ma il vero segreto di queste uve è l’ossidazione delle sue molecole. Secondo una corrente di pensiero, questi sentori ossidati sono l’elemento caratterizzante del Grillo; secondo altri invece, l’ossidazione impedisce lo sviluppo dei sentori vegetali e fruttati che dovrebbero caratterizzare questo vino.
Sono in molti a puntare sul Grillo come nuovo vino simbolo di una certa enologia siciliana. Le caratteristiche per esprimersi in varie declinazioni, il Grillo le ha tutte: una varietà è in grado di conferire acidità e produrre un vino fresco e sapido, mentre un’altra, più strutturata, regala ricchezza e opulenza. Esiste anche un terzo tipo di Grillo, coltivato ad altitudini più elevate, in grado di esprimere aromi fruttati tipici dei Sauvignon.
Naturalmente c’è anche il Grillo in purezza, ottenuto grazie alle moderne tecniche di viticoltura, in particolare del freddo in vinificazione (criomacerazione), che preserva la fragranza dell’uva. Si tratta di un vino dal grande spessore, profumato e sapido, dai sentori agrumati e floreali; acido ma equilibratamente morbido, di grande struttura.
Zibibbo: sapori eroici
Tra i vini liquorosi siciliani, il più conosciuto è senz’altro lo Zibibbo. Quando si dice: nella botte piccola c’è il vino buono. A Pantelleria, dove viene coltivata la quasi totalità della produzione nazionale di Zibibbo, tutto è piccolo: un’isola di 83 chilometri quadrati con una superficie viticola totale di circa 500 ettari, dove le aziende più grandi hanno dimensioni comprese tra uno e tre ettari. Questo gioiello incastonato nel Mediterraneo offre un paesaggio isolano mozzafiato, caratterizzato da terrazzamenti, muri in pietra a secco e colture dai profili peculiari. Sono proprio le terrazze dove si coltiva la vite a rappresentare il tessuto connettivo tra i fabbricati rurali, i giardini danteschi e le tradizionali abitazioni degli agricoltori, i dammusi. Ma questo scorcio paradisiaco è minacciato da un’ombra…
Dei 500 ettari vitati oggi stimati, 400 hanno difficoltà strutturali quali altitudine, pendenza e carenza di acqua dolce. E pensare che nei primi anni del ‘900 gli ettari erano 3.000. L’estensione massima si ha nel 1925 con 5.200 ettari, ma nel 1930 sull’isola sbarca la filossera. Ci vollero quarant’anni per tornare a una superficie coltivata di circa 3.500 ettari, ridotti a 1.500 nel 2009.
Ogni anno si perde un pezzo e mantenere i livelli produttivi con una contrazione simile diventa sempre più difficile. Ebbene sì: la coltivazione della vite a Pantelleria, definita anch’essa eroica perché posizionata su una piccola isola, sopravvive solo grazie alla qualità delle uve e al lavoro dell’uomo. Qui non ci sono macchine ad aiutare i coltivatori; il rapporto tra uomo e terra è totale e questo legame tra il coltivatore e la sua vite consente la produzione di vini dalle caratteristiche uniche.
Come lo Zibibbo, appunto.
È questo vino la vera salvezza dell’isola: grazie alla sua valorizzazione, nella seconda metà del secolo scorso l’economia di Pantelleria conobbe nuovi sviluppi. Ma qual è l’origine dello Zibibbo? Il nome di questo vitigno a bacca bianca, conosciuto anche come Moscato d’Alessandria, deriva dall’arabo zebib, uva passa, probabilmente perché queste uve si prestano particolarmente bene ad essere essiccate. Furono proprio gli arabi, se non i fenici ancora prima, a importare questo vitigno che trovò condizioni favorevoli alla crescita nel sud dell’Italia. Di origine araba sono anche le peculiari terrazze dove lo Zibibbo si coltiva.
Il grappolo è voluminoso, con acini grossi di colore verde che tende al giallo. Da quest’uva, usata anche per il consumo diretto e l’essicazione (l’esportazione in questa forma inizia nei primi del ‘900), si ottiene un vino giallo dorato, molto carico. È un vino dolce, forse IL vino dolce per eccellenza, dall’elevato grado alcolico e dal profumo di mandorla e albicocca. Il sapore è quello caratteristico del moscato, dolce e aromatico, di gran corpo. Particolarità: va servito freddo, tra gli 8° e i 12° C ed è ideale sia come aperitivo estivo che come accompagnamento per i formaggi più stagionati e saporiti.
Un’insolita versione dello Zibibbo, meno conosciuta ma ugualmente pregiata, è quella secca, prerogativa della zona occidentale della Sicilia. Rispetto al più diffuso passito, la produzione Zibibbo secco vinifica le uve dopo averle raccolte al giusto punto di maturazione, senza cioè che appassiscano parzialmente sulla pianta per farne aumentare la concentrazione zuccherina. Dopo un breve processo di criomacerazione, il mosto viene fatto fermentare in acciaio, maturando poi sui lieviti per circa 3 mesi. L’affinamento avviene in bottiglia e il prodotto finale è un vino di colore giallo paglierino che al naso presenta i profumi tipici della Sicilia: agrumi, gelsomino, fiori di zagara e d’arancio. Il sapore, fresco e di buona persistenza, si adatta perfettamente al pesce affumicato e ai crostacei.
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